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RACCONTI DI CALCIO
(Cuentos de futbol)


Quello che rende questo gioco popolare in tutto il mondo è la sua incredibile semplicità. Per giocarci e divertirsi non servono abbigliamenti speciali e neanche particolari strutture. Basta un po’ di fantasia e si può giocare in qualsiasi luogo. Si può giocare anche da soli, basta un pallone di plastica o qualcosa di sferico che ci assomigli che ti capita fra i piedi e l’istinto di prenderlo a calci è automatico. Diego Armando Maradona , la cui vera vita da sola è degna di un romanzo (leggere la sua autobiografia Yo soy el Diego, Fandango – 2002), nel cortile di casa a Villafiorito si allenava palleggiando con una semplice arancia. Si può correre in mezzo ad avversari immaginari, dribblando l’aria e tirando la palla contro una lattina per strada sognando di aver fatto un gol all’incrocio dei pali durante la finale dei mondiali.
Ma ciò che rende il futbol un argomento “letterario” è probabilmente il fatto che esso possa venire visto come metafora della vita. In una semplice partita di novanta minuti possono accadere episodi che ci possono far vivere anche da spettatori in modo concentrato le stesse emozioni di una intera esistenza. L’attesa e le speranze (all’inizio della partita), la gioia (del gol), l’amarezza (della sconfitta), la rabbia (dell’errore dell’arbitro), la passione (del tifo), la sofferenza (degli ultimi minuti) e chi più ne ha più ne metta. Umberto Saba , nella poesia Goal, da “Cinque poesie sul gioco del calcio” (Saba 39 poesie Mondadori –1996) esordisce: “Il portiere caduto alla difesa ultima vana, contro terra cela/ la faccia, a non veder l’amara luce./ Il compagno in ginocchio che l’induce,/ con parole e con mano, a rilevarsi,/ scopre pieni di lacrime i suoi occhi.”
Mempo Giardinelli nel suo “Il tifoso” (Cuentos de Futbol – Mondadori 2002) ci racconta invece in modo struggente e poetico gli ultimi istanti della vita di un tifoso proprio mentre vive alla radio quella mitica partita che da la vittoria del campionato Argentino, dopo anni di digiuno, alla sua squadra del cuore il Velez Sarsfield: “Aveva sognato quella vittoria tutta la vita. A sessantacinque anni, appena spedito in pensione dalle poste e ancora scapolo, la sua esistenza era sufficientemente regolare e spoglia di emozioni da far si che solo quel gol lo eccitasse, visto che lo aveva atteso innumerevoli domeniche, lo aveva immaginato e palpitato in mille modi diversi”
Eduardo Galeano , con il racconto “Morte sul Campo” (da “Splendori e Miserie del gioco del calcio” Sperling & Kupfer 1997) raccoglie in queste poche parole la tragedia realmente accaduta di un idolo del calcio in declino : “Abdon Porte difese la maglia del club uruguagio Nacional per più di duecento partite nel corso di quattro anni, sempre applaudito, a volte osannato, fino a quando la buona stella non tramontò. Allora lo misero fuori squadra titolare. Aspettò, chiese di tornare, tornò. Ma non c’era niente da fare, la malasorte continuava, la gente lo fischiava: in difesa gli scappavano via anche le tartarughe, in attacco non ne imbroccava una. Alla fine dell’estate del 1918, nello stadio del Nacional, Abdon Porte si uccise. Si sparò un colpo a mezzanotte, nel centro di quel campo dove era stato tanto amato. Tutte le luci erano spente. Nessuno sentì lo sparo. Lo trovarono all’alba. In una mano aveva un revolver, nell’altra una lettera.”
C’è poi il fatto che il Calcio, come qualsiasi gioco è del tutto imprevedibile e questo ha fatto si che accadessero fatti sportivamente “epici” degni di essere raccontati o che hanno fatto da sfondo a molti racconti e romanzi e che hanno segnato le vite di intere generazioni, come quando il 16 luglio 1950, il Brasile superfavorito perse in casa la finale di Mondiali di Calcio contro l’Uruguay di Schiaffino davanti a centocinquantamila tifosi che assiepavano il Maracaná di Rio de Janeiro o quando l’Italia di Rossi e Bearzot vinse inaspettatamente i Mondiali di Spagna del 1982, battendo le superpotenze di Brasile, Argentina e Germania. Ci sono state poi tragedie umane legate al Calcio che lo hanno reso ahimé simbolo di sconfitte ancora più grandi. A monito della caducità della vita, basterà ricordare l’incidente aereo che il 4 maggio 1949 vide l’intera squadra di calcio del Grande Torino di Valentino Mazzola, all’epoca probabilmente la più forte compagine del Mondo, che tornava da un’amichevole giocata a Lisbona, schiantarsi sul retro della Basilica di Superga. O a simbolo della delirante oppressione delle dittature, basterà ricordare le torture e l’assassinio da parte nazista di molti giocatori ucraini dello Start (una selezione di campioni della Dinamo e del Lokomotiv), già deportati in un campo di concentramento, rei di aver battuto a Kiev il 9 agosto 1942, per una finale di un torneo di calcio, una selezione di ufficiali tedeschi della Lutwaffe.
Non posso non ricordare una partita Kafkiana realmente “giocata” dalla nazionale Cilena nel settembre del 1973. A pochi giorni dal Golpe, in quello Stadio Nazionale, contemporaneamente utilizzato come campo di prigionia e tortura dai militari di Pinochet, si doveva giocare la partita di ritorno di spareggio per le qualificazioni ai Mondiali di Germania ‘74 tra la squadra sudamericana e l’URSS. La nazionale Sovietica si rifiutò di giocare per protesta a quanto era successo l’11 settembre e così scesero in campo solo gli undici giocatori cileni. Iniziò la partita, autorizzata dalla FIFA, e il povero capitano, Francisco Valdez segnò il gol della vittoria a porta vuota.
Per fortuna il calcio è soprattutto altro. Come il clima unico ed elettrico degli spalti prima di un derby stracittadino italiano o di un “superclassico” tra Boca e River alla Bombonera. Come le cronache di Gianni Brera, Martellini, Pizzul, Ameri o il gooooooooool!! urlato a squarciagola dai radiocronisti sudamericani. Come lo sguardo di un bambino a cui si regala per il suo compleanno un pallone di cuoio o la maglietta della squadra del cuore. Ci sono poi gesti tecnici di alcuni calciatori che da soli valgono una poesia od un racconto. Le parate di Yashin o Buffon, i gol di Pelè o di Roberto Baggio, il tacco di Bruno Conti, le finte di Ronaldinho, i dribbling di Garrincha, il cucchiaio di Totti, le punizioni di Rivelino o Platinì, le magie di Maradona, incluso i due gol all’Inghilterra nei Mondiali in Messico del 1986.
El Gordo, il grande scrittore argentino Osvaldo Soriano (“Mi ricordo i tempi in cui abbiamo cominciato a rotolare insieme, la palla ed io. E’ stato su un prato a Riò Cauto de Cordoba dove ho scoperto la mia vocazione di attaccante…” ) a ragione, il più famoso narratore letterario di calcio, racconta in “Gallardo Perez, arbitro” (Pirati, Fantasmi e Dinosauri – Einaudi 1998): “Quando io giocavo a pallone più di trentenni fa, in Patagonia, l’arbitro era il vero protagonista della partita. Se la squadra locale vinceva, gli regalavano una damigiana di vino di Riò Negro; se perdeva, lo incarceravano. E’ chiaro che la cosa più frequente era il regalo della damigiana, perché l’arbitro e i giocatori ospiti non avevano la vocazione al suicidio..”
E’ risaputo che al grande Jorge Luis Borges il futbol non piaceva affatto, diceva “El fútbol es popular porque la estupidez es popular” . Nel 1978 a Buenos Aires, durante la finale del Mondiale tra Argentina e Olanda, per protesta organizzò una conferenza sull’immortalità. Pier Paolo Pasolini al contrario lo adorava e scriveva: “Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro”. Il dibattito è aperto. Io intanto vado fuori a fare due tiri!

Paolo Mattana© 2007